In una posizione particolare, non codificata e non sempre puntualizzata dalla dottrina o dalla giurisprudenza, si pongono le cosiddette "prove digitali", in una sorta di "metaterritorio", dove sembrerebbe perdere consistenza la naturale propensione dell'uomo di rapportarsi al mondo "reale" con l'uso dei cinque sensi e del tatto in particolare. Questa pseudo-immaterialità nel processo di formazione della prova può dirsi strettamente correlata alla scarsa conoscenza del mondo "digitale", ormai trasversalmente e prepotentemente presente simbioticamente nel mondo "reale", tanto da rendere necessaria una nuova regolamentazione nel settore o, meglio ancora, l'aggiornamento di quella preesistente.

I computer e le altre apparecchiature elettroniche sono ormai presenti in ogni momento della nostra vita. L'uso dei nuovi metodi di comunicazione digitale, come ad esempio internet e le e-mail, ha drammaticamente incrementato l'ammontare delle informazioni che sono ordinariamente conservate e trasmesse solo in forma digitale. Questa evoluzione tecnologica ha però, contestualmente, agevolato e migliorato anche la commissione di vecchi e nuovi reati da parte della criminalità. I computer, per questo motivo, possono essere i nuovi protagonisti nella commissione di reati, possono contenere le prove per crimini di tipo comune oppure possono essere essi stessi obiettivi di atti criminali. Ed è in tale contesto che si pone il cyber-investigatore, il quale ha l'esigenza e il dovere di valutare prima di tutto il ruolo e la natura delle "impronte elettroniche", individuare quali supporti informatici possano contenere potenziali tracce nella scena criminis, acquisire e preservare le stesse fino alla loro successiva analisi, laddove non fosse possibile espletare i dovuti accertamenti direttamente sul posto.

In Italia, purtroppo, non esiste formalmente una standardizzazione delle procedure e le modalità operative vengono demandate alla naturale professionalità degli operatori e della magistratura delegante, tentando affannosamente di non allontanarsi dalla sottilissima linea immaginaria, costituita dai quei principi generali del codice di procedura penale.

L'esperienza processuale ha però talvolta insegnato che è facile trasformare quella padronanza del thema probandum in un boomerang, vanificando in dibattimento tutta l'onerosa attività di indagine della fase preliminare. Ma cosa sono realmente le tracce elettroniche, e particolarmente quelle informatiche? Non esiste una definizione codificata. In generale, quando si parla di "digital evidence" si vuole richiamare l'attenzione sulle informazioni ed i dati conservati o trasmessi dalle apparecchiature cosiddette digitali. Queste tracce, come già accennato, sono caratterizzate da una foggia di immaterialità e per questa loro natura, per così dire aleatoria, possono essere considerate sussumibili alle impronte digitali oppure alle analisi del DNA. Ed è proprio a causa della loro fragilità che tali tracce possono essere facilmente alterate, danneggiate o distrutte, anche per colpa degli stessi investigatori o esaminatori non idoneamente preparati, con la conseguenza di fornire il fianco alla difesa dell'indagato, la quale potrà agevolmente infondere il dubbio alla magistratura giudicante sulla genuinità dell'iter di formazione della prova.

L'irreversibile passaggio dalla carta ai bits con la conseguente necessità di dimostrare in sede dibattimentale l'efficacia probatoria delle tracce informatiche e dei significati ad esse ascritti, pone alcuni interessanti interrogativi. Come possiamo garantire l'integrità di queste "digital evidence"?
 
 
dott. Gerardo Costabile